Nedàl che li sbèrlüss – Dialetto Bergamasco
Cari amici siamo di nuovo a Natale, periodo ricchissimo di tradizioni e, quindi, di locuzioni dialettali che andremo a riscoprire come quelle cose vecchie dimenticate in un angolo, ma che, una volta riportate alla luce, ci fanno rivivere momenti e ricordi colmi di una dolcezza antica.
Il Natale è la festa della luce, la festa nella quale “ töt a li sbèrlüss” (tutto brilla). Dalla “stèla cometa“ che si metteva nel presepio, alle luminarie per le strade, “ol fil d’arsént sö l’albero” (il filo d’argento sull’albero), “i boce culurade” (le bocce colorate), “L’è töt ü sberlüsimènt che ‘l fa fèsta” (è tutto un luccichio che fa festa).
Il verbo “sberlüsì” (brillare, lampeggiamento) ci fa pensare proprio a qualcosa di festa. Ma, attenti, si dice anche che non è tutto oro quello che luccica! Così come tutto questo luccichio delle feste natalizie è solo uno stimolo visivo, un contorno dietro il quale ci deve essere qualcosa di molto più profondo.
Le cose si vedono con gli occhi, “öcc”, ed ecco che il collegamento tra occhi e addocchiamento, fa nascere il termine “sberlögiada” (guardare con curiosità) quello sbirciare, quel curiosare con gli occhi, tipico appetito degli affamati di sapere delle cose altrui, consuetudine tanto frequente nel vivere di paese di una volta. Al temine, si associa il peggiorativo “sberlügiù o berlügiù” (quasi guardone, spiatore), ma anche in una accezione molto più bella e dolce, quando si riferisce ai begl’occhi luccicanti di un bambino “’ndo èi chi bèi ügiù” oppure “’n do èi chi bèi sberlügiù”.
Sicuro, perché la bellezza e la spontaneità dell’espressione degli occhi di un bambino, stanno nella luce che promanano; quel lampeggiare espresso da sberl, che deriva da sberlüsì e che costituisce, in questo caso, elemento di amore, proprio come quello che diffonde il Bambino di Betlemme adagiato nella mangiatoia.